Faccio parte degli "Scrittori Emozionanti" che ogni mese portano ai lettori le proprie riflessioni ed esperienze ogni volta su un tema diverso che sempre apre la mente alle emozioni.


Madre e manager

Macchiavelli o Scala 40? Oppure un gioco con regole prese in prestito dall’uno e dall’altro? Poco importava. L’essenziale era trascorrere un’ora ogni sera con mio marito e i miei figli adolescenti, senza notiziari, senza pensieri cupi. 

Abbiamo vissuto in una casa troppo piccola senza muri o porte tra studio, cucina, salone: open space, quando di aperto non c’era più nulla.

Molti mesi con il terrore del contagio, costretti in una convivenza prolungata, collegati ad un mondo lontano e limitato allo stesso tempo. 

Molto è stato scritto sulla resilienza, io per prima ho sentito di aver cambiato forma, di essermi adattata a nuovi ruoli, nuovi ritmi, nuove esigenze.

Preoccupata per le possibilità esigue di crescita emotiva e relazionale dei miei figli, costretti a vivere una situazione paradossale nell'età più delicata della loro evoluzione, ho cercato di creare ritmi costanti in una vita che di normale non aveva più nulla.

Le partite con le carte erano un appuntamento cui nessuno di noi voleva rinunciare. Una parentesi serena, una storia che evolveva ogni sera, un confronto tra pari, una simulazione di relazioni e crescita. Un gioco.

Ma il silenzio e la solitudine erano la norma durante tutto il giorno; eravamo costretti a guardarci allo specchio per distogliere lo sguardo dai teleschermi e quindi a scandagliare in profondità i nostri pensieri. Non vedevo alternative, anzi ad un certo punto ho sentito l’esigenza di crescere e far crescere i miei figli ancor di più in quella direzione. 

Abbiamo intrapreso un percorso di coaching, sempre per gioco, nuovamente con curiosità. Abbiamo risposto ad innumerevoli domande e abbiamo poi avuto un confronto guidato per conoscere le nostre esigenze e i nostri bisogni all’interno della nostra piccola comunità familiare.

Ho fatto questo regalo ai miei figli ma ovviamente ho imparato molto anche io.

Ho bisogni moderati, quindi, come sapevo già, mi adatto alle situazioni. Cambio forma a seconda del recipiente in cui devo stare ma non perdo la mia integrità.

Ma qui non è mia intenzione descrivere quale sia la mia natura. 

Vorrei scrivere dell'esigenza di autoaffermazione, quella che in me è assente sebbene io abbia amor proprio e l'ambizione di trovare il mio posto nel mondo. 

E allora faccio un passo indietro, al momento in cui il voto di laurea ha sancito la fine dei miei studi. Ho smesso di essere una studentessa, anche sulla carta d'identità, dove ho voluto aggiungere il cognome di mio marito e dei nostri figli.

"Casalinga". Qualche piccola traversia mi aveva di fatto frenato nell'intraprendere il lavoro che avevo costruito con una serie di abilitazioni post universitarie.

Inizialmente ho sofferto: mi sembrava di aver buttato al vento i miei anni di studio. 

Poi mi sono adattata, come sempre.

Mamma, moglie e casalinga. Ma tutto questo non può essere inserito nel Curriculum Vitae.

Ne ho inviato uno quando ho potuto rimettermi in gioco: un rifiuto tanto elegante quanto fulmineo da parte dell’ufficio del personale.

Ho dovuto adattarmi nuovamente: se il lavoro non me lo danno, lo creo io su misura per me, dando il giusto valore agli anni passati. 

Ma non è questo il punto. Non è il mio risultato lavorativo che pongo sotto i vostri occhi. E nemmeno la mia riuscita come madre: il risultato del tempo dedicato ai figli non si misura nell'arco di 20 o 30 anni. Non c'è possibilità di affermare di essere una madre di successo. Una madre influisce nell'educazione dei propri figli, è fondamentale,  ma non determina l'esito della vita dei propri figli in modo univoco. I risultati dei figli non sono una chiave di lettura della bravura di una madre.

Vorrei anche che non cadeste nella facile trappola di un commento superficiale come tanti che ho sentito ripetere: hai fatto una scelta di comodo,  hai avuto la possibilità e la fortuna di essere mantenuta dal marito, non hai lavorato quando tutte le altre hanno fatto sacrifici. Ho argomentato per ciascuna di queste frasi, quando ho voluto, senza la necessità di dover difendere la mia integrità. 

Giustamente in questi anni vengono difese in ambito lavorativo le pari opportunità  delle donne rispetto a quelle degli uomini, donne ancora troppo spesso relegate a ruoli secondari perché madri o possibili future madri.

Ma con questo intento si trascurano del tutto quelle donne che hanno dovuto o hanno deciso di essere solo madri, abbandonando o rimandando la propria affermazione professionale. E non penso siano una minoranza. Sono silenziose.

Sono considerate sottomesse ai mariti o sfruttatrici, donne deboli e di poca sostanza, frivole e vuote, pigre e inette.

Una donna, madre, come può riproporsi nel mondo del lavoro dopo anni di assenza, se su di lei pesano così tanti pregiudizi?

Viene negato il diritto di veder attribuire ad una "donna soltanto madre" la dignità che merita. 

La voce "madre" dovrebbe entrare a tutti gli effetti nel Curriculum Vitae perché essere madre a tempo pieno è un valore. 

Non sminuisce quello di donne che hanno fatto scelte differenti; è un'alternativa con pari dignità. Semplicemente. 

Perché mi scaldo adesso e ne parlo, ne scrivo?

Mia figlia sta scegliendo l’università che frequenterà al termine del liceo, tra un anno. Vuole fare carriera, qualsiasi cosa questo significhi per lei, studia per poter lavorare con soddisfazione.

Ricordo però un tema che aveva svolto alle elementari in cui si immaginava madre di 5 figli, me al suo fianco pronta ad aiutarla. Una casa affollata, una mezza dozzina di cani e gatti per non farsi mancare nulla.

Vorrei che potesse immaginare entrambe le cose, un ruolo lavorativo soddisfacente e una vita di madre appagante. Ma non per forza contemporaneamente.

Vorrei che fosse libera di scegliere, avendone l'opportunità,  di essere madre da giovane e lavoratrice in età matura.

Vorrei che "madre fino a 35 anni" fosse una voce del Curriculum Vitae degna di nota agli occhi della società. 

Anche questa è parità, tra donne lavoratrici e donne casalinghe, non soltanto tra uomini e donne.

Perché non tutte le donne sono come me, che mi adatto ma che non cambio idea. 

Altre donne, forse proprio le più giovani, potrebbero patire la forma di giudizio che avverto io da sempre e quindi, nell'intento di autoaffermarsi come donne di successo, potrebbero decidere di accantonare una parte importante della loro indole: l'esigenza di essere madri a tempo pieno. 

La vera libertà è nell'assenza di pregiudizio, è nell'accantonare,  volendo e potendo,  l'esigenza di autoaffermazione dando più valore ai propri desideri.

Voglio mia figlia libera.

Accettare chi siamo

“Professore straordinario” -Rispondevo così quando ero piccola e mi chiedevano che lavoro facesse mio padre.In quello straordinario c’era tutto il mio mondo.Quell’essere eccezionale che ogni mattina usciva di casa per andare a lavorare, bello, elegante, serio, molto serio, troppo serio, quello era il mio papà. Ed era veramente straordinario!In quegli anni, dopo essere stato assistente di ruolo per una cattedra universitaria, si diventava professore straordinario. Mi chiedo tutt’oggi se l'ideatore di questo titolo avesse un malcelato ghigno quando ha approvato l’appellativo di questa carica. Avrà ammiccato ai suoi colleghi, sfiorandoli con il gomito, pensando al gioco di parole.Una trappola in cui io, giovanissima, sono caduta.Mio malgrado dopo tre anni di onorato servizio come professore straordinario mio padre è stato esaminato e promosso a professore ordinario. Io non devo averla presa troppo bene perché ancora oggi ricordo la delusione di non poter più dire che avevo un papà straordinario e che, con il passare degli anni, era sceso dal suo piedistallo ed era diventato ordinario, comune.Il mio era speciale e non glielo diceva più nessuno, non era più scritto da nessuna parte.Ho incassato il colpo e me ne sono fatta una ragione evitando di affrontare apertamente il discorso per non mettere il coltello nella piaga.Immaginavo che ci fosse stato male lui per primo, anche se non lo dava proprio a vedere.Straordinario anche in questo ai miei occhi: un uomo bello, elegante, serio, non poteva cedere allo sconforto nel non potersi più fregiare del titolo di straordinario.E continuava a lavorare e a fare numeri. Dico “fare” e non “dare” i numeri perché ai miei occhi di bambina lui, che era un matematico (così si diceva) non scriveva mai numeri ma interi calcoli con simboli strani che non assomigliavano a nessuna delle lettere che io utilizzavo per scrivere i miei temi del lunedì mattina, in classe.Era proprio un genio.Ed erano proprio geniali anche gli ospiti che frequentavano la mia casa. Quelli che io timidamente salutavo la sera, prima di andare a dormire, già con il mio pigiamino colorato indosso. Cercavo di capire se anche loro fossero stati straordinari e chiedevo a mio padre che lavoro facessero e lui mi rispondeva che erano matematici, nulla di più.Erano professori, parlavano tutte le lingue del mondo. Alcuni facevano il baciamano alla mia mamma, altri inchini appena accennati a seconda delle usanze del loro paese. Tutti simpatici, allegri…anche perché non poteva essere altrimenti quando venivano ospitati da mia madre che li accoglieva con manicaretti, nemmeno a dirlo, straordinari.Io nutrivo ammirazione e rispetto per loro e nessuno mi metteva in imbarazzo o mi faceva paura quanto, invece, i professori delle scuole medie.Questi ultimi mi giudicavano e non sempre i miei voti risultavano straordinari.Non avevo preso da mio padre.Non ero un genio nello studio, non me lo diceva nessuno, nemmeno il mio papà che mi voleva un gran bene. Figuriamoci i professori per i quali restavo uno sgorbietto tutto ossa, con troppi capelli e sopracciglia e un’emotività fuori misura.Eppure la mia testolina funzionava e due professoresse del liceo se ne sono accorte. Loro, con un lavoro quotidiano, mi hanno permesso di uscire dallo stereotipo che mi era stato cucito addosso della ragazzina poco portata per lo studio.Mi hanno fatto un regalo immenso: hanno fatto salire la mia autostima.L’autostima è il valore che ognuno di noi si attribuisce e si basa inizialmente su quanto gli altri ci assegnano.La mia autostima è mutata dalla consapevolezza di essere una bambina dolce, a quella di potermi vedere come una ragazza abbastanza in gamba da poter affrontare gli studi che più mi attiravano.Con il tempo ho raggiunto molti degli obiettivi che mi ero prefissata e la mia autostima ha raggiunto una certa stabilità. Quanto sto bene da quando mi conosco! Sono in grado di provare ammirazione per chi riesce bene, senza invidia e frustrazione. Ogni tanto mi coglie ancora la sindrome dell’impostore, mi sembra proprio che esista e che abbia questo nome: la paura che tutti si accorgano che non valgo nulla. Uno strascico del lavoro che hanno compiuto anni di senso di inadeguatezza a scuola. Ma fortunatamente esco da questo loop asfissiante in breve tempo. Mi va bene così.Anzi, grazie a questo allenamento periodico cui mi sottopone spontaneamente la mia mente, sono in grado di reagire prontamente quando qualcuno tenta di mortificarmi.Sì, mi è successo di recente.Ho molti progetti e di questi uno è particolarmente ambizioso. Per poterlo realizzare ho avuto la necessità di contattare due professoresse universitarie di matematica. Ordinarie.Ho avuto modo di osservarne il comportamento e lo strano scherzo che l’autostima ha giocato ad una di loro: si è trasformata in arroganza.E con l’arroganza che annebbia la vista non si è in grado di capire bene il proprio ruolo, forse nemmeno le basi di una corretta educazione.La mia autostima però mi ha aiutata in una risposta ferma e gentile. In uno scambio rapido di email ho interrotto la comunicazione. Con l’altra professoressa le cose sono andate notevolmente meglio. I suoi dubbi sono stati esposti in modo chiaro e professionale. Non c’è stata arroganza. E questo mi ha dato la possibilità di guardare al mio progetto con una nuova prospettiva senza dover mettere in gioco l’autostima, nemmeno per un istante.In poche parole ho ricevuto due “no”.Nessuno dei due mi ha demoralizzata.Non è entrata in gioco l’autocommiserazione. La evito come evito l’arroganza. L’autocommiserazione è un modo comodo per conservare ai propri occhi una parvenza di perfezione pur se confrontati con un insuccesso, imputandolo ad un destino avverso, momentaneo o duraturo, senza perciò fare nulla per elevare la propria condizione dal fallimento costante.Insomma, per come la vedo io, l’autostima non sta a metà strada tra l’arroganza e l’autocommiserazione. L’autostima viaggia su un binario parallelo, non sta immobile per tutta la vita ma aumenta o diminuisce: è mutevole. Ma non tocca mai arroganza e autocommiserazione.Arroganza e autocommiserazione si litigano l’animo delle persone che non investono nella propria crescita emotiva.E, come si sa, da sempre: tra i due litiganti il terzo gode!

L'attimo fuggente della Felicità

Un girocollo di perle rosa, minuscole, tenute insieme da una sottile catenina con foglie d'oro, delicate e leggere come petali, riuscite ad immaginarla? E una semplice camicia bianca ben inamidata, profumata di pulito. Come piace a me, un piccolo tocco di estro e creatività accompagnato da qualcosa di classico.Adoravo indossare quel monile! Orgoglio e tenerezza, un'alternanza di sensazioni e ricordi ogni volta che agganciavo le estremità intorno al collo. Orgoglio per il traguardo che avevo raggiunto nonostante mille difficoltà, tenerezza perchè la mia felicità era stata dolce in quel momento. Quel giorno,  mentre camminavo verso il gate, in anticipo come al solito sull'orario del volo,  mi fermavo ad ogni vetrina trascinando il trolley e vagavo con la mente vuota tra un manichino e un bancone.Ricordo lo sguardo rapido, quasi premonitore, che ho dato al girocollo specchiandomi nel reparto di una profumeria. È stata l'ultima volta che ho visto la mia collana.Scendendo dall'aereo, giunta a destinazione,  ho chiesto  al personale di aiutarmi a cercarla.Non è più mia da quel giorno.Mi resta il ricordo: la felicità del momento in cui ho aperto la scatolina foderata di seta color avorio. Il sorriso della mia mamma, con le sue labbra morbide e carnose piene di baci, sembrava ancora più luminoso. La nostra complicità,  la nostra felicità,  insieme, erano tutto in quel momento. Voi non sapete il motivo di quel dono, ma potete ugualmente immaginare la tristezza nel realizzare che me lo avevano portato via.Avevo cercato ovunque,  dentro la camicia, sperando che fosse rimasta con me, magari spezzata, da aggiustare, rotta, ma ancora mia. E poi avevo infilato le mani in ogni fessura delle poltrone, davanti, dietro. Nulla.Ho riempito moduli, fornito descrizioni e dettato tutti i numeri telefonici utili a raggiungermi in caso di ritrovamento. Niente, non l'ho mai più avuta tra le mani.Ma non è andata persa, non è sparita, esiste ancora; qualcuno oggi, mentre io scrivo e mentre voi leggete, la possiede. Rubata o trovata per caso, era il mio ricordo di felicità.Adesso avrà tutto un altro significato. Nessuno sa ciò che rappresentava per me, a parte mia mamma, e nessuno sa cosa sia diventata adesso, nella sua seconda vita. Il medesimo oggetto suscita sentimenti e ricordi diversi a seconda di chi lo guarda e lo possiede.Forse la felicità è proprio questo, un sentimento unico e personale.  Un attimo, comune a mille persone ma che viviamo intimamente in modo soggettivo.Lo stesso istante guardato con occhi diversi, vite diverse, desideri diversi assume significati differenti e quando siamo fortunati ci permette di toccare la felicità. La cerchiamo, facciamo sforzi e sacrifici per raggiungerla, poi, quando si tratta di descriverla, abbiamo quel momento di esitazione  che ci fa comprendere quanto sia inafferrabile.Un sospiro,  gli occhi che vagano in cerca di ricordi e un sorriso. "Bella domanda!" Infinite risposte.Nei primi mesi di vita il sorriso esplode per la felicità incrociando lo sguardo di mamma e papà. L'emozione è incontenibile quando si vede Babbo Natale, vero o finto, poco importa…quella è felicità.Fantasticare sul primo amore e poi sentirlo nascere proprio con la persona che abbiamo desiderato fa scoppiare il cuore, magari soltanto per un istante, ma si tratta di felicità.Diventare genitore, nonno, zio, il migliore amico di qualcuno e condividere con questa persona risate, avventure,  vacanze, vita, questa è la felicità. Alcuni vorrebbero barattare la felicità con la serenità,  la tranquillità,  la salute, quasi come se limitare l'intensità del desiderio o la profondità delle sensazioni ci desse in cambio la possibilità di vivere ciò che abbiamo voluto per un tempo più lungo.Volgere lo sguardo su qualcosa di razionale e sensato può rendere tollerabile il tempo e la vita in assenza di felicità. Però,  se tocchi la felicità, anche soltanto per un istante e sei disposto ad accoglierla, ne rimani talmente coinvolto da non poter far altro che sperare che ricapiti. E sì, desideri ancora la serenità, la tranquillità,  la pace, ma le vedi per quello che sono: un intervallo in attesa di una nuova felicità. C'è un "prima" e c'è un "dopo": l'istante in cui si conosce la felicità cambia ogni volta la prospettiva con cui si guarda alla vita.Quando incontri la vera felicità rivivi tutto ciò che hai fatto per toccarla.Dopo prendi coscienza di qualcosa di ancora più potente del desiderio che ti ha permesso di aspettarla e raggiungerla: realizzi cosa sarai in grado di fare per difenderla.E non si tratta in questo caso di conservare con cura un gioiello, un oggetto, un ricordo.Si tratta di vivere nel presente con il gusto della felicità ancora in bocca.Io l'ho conosciuta la felicità di cui parlo.Ero giovane e ancora incosciente per molti aspetti ma sapevo di essere felice e ogni giorno mi svegliavo sperando che non finisse.Parlavo ed ero capita; mi pettinavo, mi vestivo, mi truccavo ed ero vista.Mi profumavo e sentivo il suo profumo; mangiavo ed era il suo stesso cibo.Pensavo e i miei pensieri erano soltanto per lui.Ero talmente unita a lui che non distinguevo i confini tra la mia vita e la sua.E mentre vivevo e assaporavo ogni istante con lo stupore di una bambina e l'egoismo di un'adolescente, sentivo al pari di un adulto che quel tempo così lungo di felicità era una fortuna fuori dal comune.Con il passare dei giorni tutta quella felicità ci ha guidato nel costruire una famiglia, ci ha permesso di abitare in una casa, ci ha spinto a trovare un lavoro.Abbiamo poi sperato insieme in una vita tranquilla, serena, in pace. Come tutti.E gli ingranaggi del nostro matrimonio hanno iniziato a non girare bene. Come per molti.Eppure siamo stati così fortunati, nuovamente, perchè la stessa felicità dei primi tempi ci è  corsa incontro, sfacciata, incurante dei nostri pensieri più tristi, e ci ha urlato di difenderla.Potevamo essere felici, anzi dovevamo esserlo, ancora e più di prima.Ora aspetto un altro nuovo momento di felicità, senza rincorrere sinonimi. Arriva, sono pronta.

Sentire la paura

Empatia…ora non so cosa sia, sono nel dormiveglia, un piede giù per terra e l’altro ancora avvolto dalle lenzuola, impedito nei movimenti. I miei pensieri sono confusi: è ora di alzarmi e lavorare o posso permettermi ancora minuti di pausa?Cerco il comodino con la mano e circondata dal buio tento di capire dove ho dormito. Trovo una superficie di plastica liscia su cui sono appoggiati tre sassi ovali che ho raccolto in estate sulla spiaggia: sono al mare, fantastico!Posso recuperare i pensieri con calma. Ieri sera siamo arrivati tardi e sento ancora tutta la stanchezza del viaggio. Varcata la soglia di casa ho riempito di acqua la ciotola dei cani. Ho annusato l’aria. Un rito come tanti.Ora ricordo.Mi alzo. Accantono per un attimo il pensiero dell'empatia.Accendo il tablet per leggere le notizie e dal terrazzo vedo il mare in lontananza.Non è vacanza. Ma trascorrere il fine settimana al mare vuol dire non dover inseguire il mondo. Vivere due giorni ogni tanto nella casa dove trascorro l'estate mi fa sprofondare più facilmente nel ritmo lento dei pensieri. E sorrido per un istante.Il ricordo di un'abitudine cui siamo affezionati, di un evento che ci ha cambiato in meglio la vita, di un incontro che è stato semplicemente bello fa stare bene anche se è terminato da molto tempo. Purtroppo la stessa cosa accade quando qualcosa di sgradevole torna in mente: stiamo male sebbene sia tutto risolto.Lo so che siete d'accordo ma vorrei convincervi fino in fondo. Per questo, mi perdonerete, vi farò un dispetto. Ricordate quella volta in cui siete caduti per terra con le ginocchia, strisciando giusto trenta centimetri prima di concludere lo schianto? Magari sulla ghiaietta, quella appuntita, non quella di ciottoli smussati. Lo so, avete fatto una smorfia di dolore. Io non ricordo come sono caduta ma la sensazione netta di dolore è ancora sul ginocchio. A dirla tutta sento un male immaginario anche ai palmi delle mani e quasi non resisto, li devo guardare con attenzione per controllare che non ci siano ancora i segni delle sbucciature.Non ho male, non corro a cercare il disinfettante o il cerotto. Però sarei in grado di dare indicazioni precise su come intervenire.Non soltanto: potrei anche consolare la persona perché so cosa sta provando.Si tratta di empatia? No, non credo di averla ancora trovata. Continuo a cercarla: il ricordo di un'esperienza permette di intervenire in modo opportuno, se siamo persone sensibili e altruiste, beninteso.Però se tutto si limitasse a questo, io, pur amando i miei figli, non potrei aiutarli o sostenerli durante la loro crescita se non limitandomi alle situazioni che ho già vissuto in prima persona.Non andrei molto lontano. Loro nemmeno. E allora volgo lo sguardo su quelle persone che più di ogni altra incarnano, nel sentire comune, l'empatia. I dottori. Come farebbero a curare i loro pazienti se non potessero andare oltre la loro esperienza personale?Perché, lo sappiamo bene, è necessaria ma non è sufficiente una laurea per essere un buon dottore, di quelli che fanno la differenza. Il paziente vuole essere visto, ascoltato, creduto.Ve lo dico perché io per prima ho avuto paura di non essere creduta. Una pastiglia aveva avuto un effetto collaterale inatteso e mi aveva fatto esplodere un'emicrania atroce, un dolore che paralizzava i miei pensieri in dinamiche tossiche al punto di farmi credere di morire, sebbene non fossi in pericolo di vita. Mio marito mi abbracciava cercando di confortarmi in quei lunghi minuti di buio,  assicurandomi che mi credeva, credeva al mio dolore e l’avrebbe fatto presente ai dottori. Avrebbe parlato lui se io non avessi più avuto forze nemmeno per soffrire.Ricordo ogni istante di quella notte e mi stupisce quanto io fossi più preoccupata di essere creduta anziché curata.E questa paura mi coglie anche adesso a distanza di anni, dopo che ho imparato a ridere di quella sera in cui avevo totalmente ceduto allo sconforto. In questi ultimi giorni mi sono recata più volte dall’oculista e la mia ansia maggiore è stata quella di non riuscire a descrivere adeguatamente ciò che stavo vedendo o meglio che non ero in grado di vedere.Non vi dico il sollievo quando ad un tratto il dottore mi ha detto con tutta la naturalezza del mondo che i filamenti che vedevo galleggiare in un mare trasparente e calmo nel mio occhio li vedeva anche lui da fuori aiutato da quell'enorme macchinario di lenti e luci.Si trattava  letteralmente di due punti di vista differenti che vedevano la stessa cosa.Ma allora è questa l’empatia che tutti andiamo cercando in un dottore? L'ho trovata?Si tratta della loro capacità di vedere con i nostri occhi una nostra esperienza?No, non basta.Nello studio oculistico, al pronto soccorso,  ho potuto finalmente tacere, lasciare che mi visitasse accogliendo la diagnosi senza il dubbio di non aver esposto bene i sintomi o taciuto qualcosa di importante della mia anamnesi.Mi credeva. Mi vedeva. Non c’era bisogno che mi ascoltasse in ripetuti racconti, bastava che parlassi una sola volta. Perfetto.Sicuramente è stato un bravo tecnico dell’occhio ma posso dirvi anche che con molta abilità ha colto in me la peggiore delle paure e l’ha disintegrata in un istante.E a quel punto non mi interessa sapere se possa essere vero o meno che un oculista veda ciò che vedo io. Ciò che importa è che in quel momento io mi sia potuta fidare anche della persona oltre che dello scienziato, studioso dell'occhio e del nervo ottico.L'empatia, forse l'ho trovata? Manca ancora qualcosa.Lui guardava me, io guardavo lui. I nostri punti di vista sebbene diversi osservavano lo stesso oggetto con il medesimo scopo.E il dottore ha potuto aiutarmi grazie alla sua esperienza,  ai suoi ricordi di ore di studio, testa bassa sui libri.Ma l'empatia è quella dote che ha fatto la differenza:  è quel passo in più che un uomo sceglie di fare per conoscere meglio la persona che ha dinnanzi, e che senza lasciarsi coinvolgere emotivamente da paure, dispiaceri, sconforto e disperazione riesce ad andarle incontro e ad aiutarla. L'empatia è un atto d'amore e altruismo che non viene dal cuore ma dalla ragione mossa da buoni sentimenti. 

Genitori consapevoli

Ero già mamma di un bellissimo bambino.Ma era lo stesso la prima volta. L’odore di disinfettante e il telo verde li conoscevo già e non si sono fermati nella mia memoria. Non tutto rimane. Sono passati diciassette anni ed era la prima volta che vedevo mia figlia.Mi ha udito e mentre le dicevo che era bellissima puntava gli occhi verso la mia voce. Con le ciglia lunghissime accennava il suo primo battito di palpebre. Era infagottata, tra le mani di una sconosciuta abituata al miracolo quotidiano della vita che sarebbe svanita lasciandoci “noi” per sempre.Occhi grandi e profumo di buono, una pelle morbida e tesa, una dolcezza infinita.Passava il tempo.Cresceva: aveva boccoli biondi che non avrei mai osato desiderare. Li pettinavo cercando di imparare come carezzarli per renderli dorati e lucidi. Li raccoglievo sulla nuca lasciando cadere qualche ciocca in modo che si muovesse libera all’aria mentre lei correva. Una principessa selvaggia, come fosse stato un personaggio dei cartoni animati, uno di quelli che poi nella vita fanno grandi cose.Siamo state sempre noi, un legame al femminile che non ha mancato mai di stupirmi. Ho avuto accesso a serbatoi di energia quasi infinita da cui ho attinto a piene mani sia per sorreggere la famiglia che per immaginare il mio lavoro.Ho sentito così tante volte - Mamma sono felice! - che non so contarle.Ed era un ciclo vizioso in cui non sapevo se per pura magia fossi io a generare questa profonda sensazione di benessere che poi mi tornava indietro come appena spinta da un acceleratore di particelle o se la sua felicità mi portasse a renderle la vita gioiosa per il solo gusto di vederla ancora più felice.Anno dopo anno ha imparato a superare tristezze e paure. Una determinazione e una coerenza ammirevoli, rese qualità semplicemente umane al solo buttare un occhio sul disordine della sua scrivania e del suo letto. Bimbi piccoli, problemi piccoli…ragazzi grandi, problemi grandi. Ecco ci siamo.Una preadolescenza morbida e adesso ci scontriamo con un periodo durissimo.Ma siamo ancora insieme: io vivo sulla mia pelle i suoi dolori e adesso è lei che attinge a piene mani dal mio serbatoio. Sono qui apposta. Una mamma è un serbatoio di energia, anche quando ne ha poca.Ma non è solo questo che ci lega e che rende necessaria la nostra alleanza ancora per un po’.Io insieme a mio marito siamo gli occhi che la guardano e che le rendono l’immagine vera che lei, lasciata da sola, potrebbe perdere. Nessun adulto al pari di me e mio marito sa di quale materia sia fatta la sua anima.Un volo, finalmente pericoloso, il suo. E noi al suo fianco le indichiamo la via giusta assecondando il suo obiettivo.Ma qual è la via giusta?Una sequenza di scelte pensate con una chiara visione di sé.Una dolcezza ed una sensibilità che sono un dono per tutti in famiglia.Una cocciutaggine ed una determinazione che portano a sorridere al solo pensare al destino che spetterà a coloro che si frapporranno tra lei e i suoi desideri.Ma anche le fessure, le fragilità che potrebbero portare alla rottura sono state davanti ai nostri occhi. E lei vuole conoscerle. Raccontiamo e lei ascolta, avida del nostro punto di vista. Ultimamente il percorso di studi è difficile. Le sono richiesti sforzi ripetuti che la sfiancano.Ci sono ragazzi, suoi coetanei, che sembrano non patire e lei ogni tanto li guarda e ambisce a misurarsi con loro. Lasciamo fare, anche se i paragoni non sono mai la soluzione per trovare lo slancio giusto e balzare in avanti.Non cambierei una sola virgola in lei, comprese le sue paure e le sue insicurezze, perché sono giuste lì dove sono, in una diciassettenne.Non cambierei nemmeno la fragilità del corpo. Anche questo le insegnerà qualcosa di utile in futuro. La pazienza nel comprendere il proprio corpo e la dedizione nel curarlo.Per ora siamo al suo fianco a non permettere che il suo percorso prenda una via diversa dai desiderata. Tralasciando i ricci biondi o alcuni particolari del carattere, leggendo il mio racconto forse avete rivissuto le vostre più intime emozioni nel seguire il cammino dei vostri figli.Genitori e figli sono legati da un'esigenza di felicità reciproca, una necessità di donarsi senza paura di essere giudicati,  amati sotto ogni aspetto in ogni istante. Il tanto atteso qui e ora è negli occhi di un genitore mentre sostiene il figlio che prende il volo.La cosa ancora più bella è che questo sostegno non finisce mai, anche quando da adulti se ne ha meno bisogno. Sicuramente se ne ha meno bisogno. Un adulto ha ben presente le proprie capacità,  ha una robusta consapevolezza,  riesce a superare ogni difficoltà senza vacillare…Sì, …magari! Le cose non stanno proprio così.Tanti anni fa ho attraversato un periodo di sconforto e sfiducia.Ho avuto al mio fianco i miei genitori. Un privilegio, perché anche da lontano hanno continuato ad assistere il mio volo adulto. Ho avuto mio marito che mi è stato accanto nel percorso di rigenerazione. Ho avuto i miei figli,  spettatori disinformati della mia crisi, che non mi hanno mai permesso di donare loro meno che attenzione.Eppure ad un certo punto non mi è bastato l’aiuto di tutto il mondo.Ho dovuto aiutarmi da sola.Avevo il cuore stropicciato come quello di una bimba cui hanno rubato i giochi più belli per puro dispetto. L’unica cosa che avevo imparato a fare, magari non nel modo migliore ma sicuramente a modo mio, era la mamma: osservare mia figlia, pregi e difetti, e guardarla con gli occhi di un adulto che conosce il suo valore.Quindi ho deciso di chinarmi, mettermi in ginocchio, per farmi più piccina e poter comunicare con quella bambina, sofferente e che chiedeva aiuto, come fosse stata mia figlia: la mia parte emotiva che non poteva più essere trascurata. L’ho consolata, l’ho ascoltata quando piangeva. L’ho resa nuovamente consapevole del proprio valore.Alla fine, sì, ho fatto leva sulle mie forze, quelle costruite sull'esperienza di madre.Sono stata mamma e poi figlia. Un percorso di consapevolezza quotidiano. Un dono. Da condividere.

Le parole magiche


Qualche anno fa  ho caricato poche cose in ascensore, ho varcato la soglia di una porta che non riconoscevo, cercato a tentoni l’interruttore della luce e ho sfilato il cappotto.  Ho traslocato in un’altra città. Tutto in un solo giorno.Ma con il trasloco sapevo di non aver ancora cambiato “casa”. La mia era dove avevo vissuto per quindici anni con la famiglia, nella città dove ero nata quarant’anni prima.Avevo deciso, pensato, programmato e immaginato il cambiamento ma l’ho vissuto molto tempo dopo il trasloco.Perché il cambiamento non avviene in un istante come conseguenza di una singola azione.Ci sono voluti mesi per sentirmi veramente a casa, per guardare fuori dalla finestra e vedere non soltanto il cielo, gli alberi e le persone ma per associare ad ognuna delle immagini un ricordo: l’ultimo temporale, la fioritura di un albero, il caffè a casa di una vicina.Il desiderio di cambiamento era stato l’obiettivo e ho dovuto lavorare molto tempo per arrivarci, mettere in successione una serie di azioni quotidiane, tanti piccoli passi che avrebbero fatto mutare le mie sensazioni.Quello che non avevo immaginato e non avevo potuto programmare era un cambiamento che sarebbe avvenuto ancora più in profondità, quello del mio rapporto con gli altri.Le persone che incontravo non sapevano nulla del mio passato e dovevo farmi conoscere per ciò che ero in quel momento, nel presente, un gesto ed una parola dopo l’altra. L’immagine che mi veniva restituita dai miei nuovi conoscenti era ciò che ero diventata per loro in quell’istante. Mi sono resa conto di non dover fare costantemente i conti con il passato, come se avessi avuto una nuova possibilità e fossi tornata a far parte degli adolescenti con il vantaggio rispetto a loro della consapevolezza del mio essere.Ho avuto quindi la possibilità di riflettere sull’influenza che l’ambiente può avere sul carattere di un giovane ancora sprovvisto di una propria esperienza di sé. Si affida al giudizio altrui in tutto e per tutto, dal genitore all’insegnante.La mente dei giovani è plasmabile, di questo un adulto deve essere sempre consapevole.Uno sguardo, una parola di un genitore e al bambino o al ragazzo viene fornito un tassello che comporrà l’immagine che lui avrà di sé. Ciò che l’ambiente gli avrà confermato di essere sarà un facile appiglio per costruire il carattere. Per questo motivo si rischia che un bambino descritto costantemente da un genitore come “monello” si comporti sempre da monello, perché si riconoscerà in quell’atteggiamento.Un bambino che nei primi anni di scuola raggiunge buoni risultati e viene lodato sarà più propenso a confrontarsi con nuove sfide proponendo un atteggiamento costruttivo.La preferenza di una certa materia scolastica sarà influenzata dalla propensione innata dello studente, dalla simpatia  e dalle capacità di fare chiarezza sugli argomenti dell’insegnante ma anche dal giudizio che lo studente riceverà nelle verifiche, la restituzione di un numero che lo qualifica.In ambito scolastico però non ci sono soltanto i voti. Esistono delle etichette ancora più pesanti da portare. Sono le diagnosi di Disturbi Specifici dell’Apprendimento, sottoscritte da neuropsicologi in seguito ad una valutazione delle capacità più o meno compromesse nell’ambito della lettura, scrittura o calcolo.L’acronimo di questi disturbi è DSA.La diagnosi è necessaria perché in ambito scolastico è richiesta una certificazione per poter godere di pari opportunità.Io insegno a bambini che hanno difficoltà con la matematica e che presentano DSA, già certificati o in fase di analisi.Io devo affrontare con loro la materia scolastica che trovano più sgradevole e in cui si sentono meno capaci. Alcuni arrivano presto, nei primi anni di studio, altri hanno già un passato di continui fallimenti e quindi una grande “etichetta”.In questi ragazzi io devo scardinare il senso di sconfitta cui sono abituati e convincerli ad iniziare una nuova sfida.Il cambiamento come sempre non è repentino ma con gli anni ho imparato che oltre al duro lavoro, lungo e costante, ho alcune armi a mio favore.Creo delle nuove etichette e uso quelle che ormai chiamo “parole magiche”.Nel mio libro “Sassolini per contare” pubblicato da Voglino Editrice nel luglio del 2021 descrivo il ruolo di queste parole:La parola magica, per come la vedo io, esiste davvero, e non ha un solo suono ma la medesima intonazione della voce.Ha la dolcezza di un incoraggiamento, la melodia di un complimento, la leggerezza di un sorriso.Unica avvertenza: le parole magiche non vanno sprecate ma usate in abbondanza nel momento giusto e per il motivo giusto, quando si è ottenuto un miglioramento.I progressi vanno riconosciuti e sottolineati per permettere il cambiamento della percezione di sé.In particolare descrivo come ho scoperto in prima persona il valore di una parola magica sopra ogni altra: La professoressa di chimica mi diceva “brava” quando riuscivo a completare dei semplici esercizi, talmente banali che mi sembrava di rubare quel complimento. Eppure un passo alla volta avevo scoperto la gioia di sentirmi dire quella parola e ne volevo sempre di più e allora studiavo, di nuovo e poi ancora, fino a decidere dopo la maturità che ce l’avrei fatta anche senza di lei al mio fianco, iscrivendomi all’università di chimica. Ormai ero  “Diventata” brava.Ho vissuto un grande cambiamento. Ho potuto dare una svolta alla mia vita partendo da una situazione di difficoltà.Questo è il motore principale, la mia esperienza diretta di cambiamento, che mi permette ogni giorno di aggiungere un tassello , una goccia di autostima a quei ragazzi che partono svantaggiati ma la cui indole di curiosità e il desiderio di riscatto non sono del tutto sopiti.Hanno una difficoltà oggettiva che li limita. La loro certificazione permette di agire in ambito scolastico per dare loro le stesse possibilità degli altri studenti di crescere e migliorare.Io fornisco le armi per attuare il cambiamento: spiegazioni, schemi, metodi di risoluzione dei problemi matematici ma soprattutto restituisco loro l’immagine positiva che mi danno con la costanza e la caparbietà.E con loro osservo il cambiamento.

Le migliori intenzioni

Il primo amore non si scorda mai, sono d’accordo; ogni volta che casualmente un suo pensiero attraversa la mente si indugia nel suo ricordo.Io ho amato la chimica, la sua magia, che permette con il giusto apporto di energia di creare prodotti e desideri, e al contempo la sua concretezza, che individua in questi caratteristiche determinate e precise. A distanza di anni dal termine degli studi vedo ancora la genialità dell’essere umano dietro ogni scoperta e invenzione. Vedo la chimica come lo strumento per dare sostanza alle migliori intenzioni, ai sogni. Quindi ogni volta che un paragrafo di un articolo, un’immagine di un servizio, una frase di un documentario fa riferimento alla chimica io mi soffermo con una certa vena romantica tra le emozioni che ormai appartengono al mio passato, al mio primo amore.Mi ostino a vederne la bellezza anche quando è responsabile di effetti in qualche misura negativi per l’uomo e per l'ambiente. Accade infatti che anche il più nobile degli intenti generi esattamente l’effetto opposto. Leggevo pochi anni fa delle intenzioni di Sten Gustaf Thulin, inventore del sacchetto di plastica, un oggetto rivoluzionario, dal basso costo, resistente e indistruttibile. Ideato per contrastare il danno ambientale causato dalla produzione di sacchetti di carta, risultava efficace nel limitare lo sfruttamento del territorio se riutilizzato molte volte.Ma il suo basso costo combinato alla sua resistenza nel tempo ne hanno fatto il principale nemico per la salute degli oceani e non solo.Non è stata la chimica a tradire lo scienziato ma l’uso errato ha reso dannoso un prodotto dalle qualità eccezionali.In un mondo sempre più sensibile alla tutela ambientale il sacchetto in polietilene non è più la scelta ottimale.Si può pensare a questa presa di posizione come ad un atto di gentilezza, uno dei tanti, per una più consapevole difesa dell’ambiente.Atti di gentilezza possono essere osservati anche nella ricerca della sostenibilità per gli investimenti e nel favorire quelli volti alla creazione di profitti che pongano l'attenzione sulla tutela delle persone e del pianeta. L’acronimo ESG (Environmental, Social and Governance) si riferisce ai tre fattori centrali presi in considerazione nella misurazione di investimenti responsabili. Quindi un’azienda viene valutata non solo per la sua redditività  ma anche per il suo approccio alle sfide ambientali e  alla gestione dei rapporti con il personale.In ambito lavorativo qualcosa sta cambiando in modo macroscopico ma c'è di più.Spinte dalla pandemia molte aziende hanno dovuto repentinamente strutturare il proprio lavoro da remoto. Ora, tra le innumerevoli ondate di contagi, molti lavoratori, messi nella condizione di poter scegliere, hanno preferito protrarre lo smartworking anche nei periodi di quiete dalla pandemia, trovando beneficio nel poter riorganizzare il proprio tempo in modo più produttivo.Un atto "gentile" da parte delle aziende favorire, quando possibile, questa rivoluzione che vede anche la riduzione degli spostamenti, ormai inutili.Ho ascoltato Guido Stratta, direttore people di ENEL, il quale, durante un’intervista in cui presentava il suo libro “ Ri-evoluzione” di recente pubblicazione, ha aggiunto un'osservazione riguardo la gentilezza: questa si esprime in ambito lavorativo con una diversa percezione delle gerarchie che stanno perdendo la vecchia connotazione a favore di una ricerca di collaborazioni proficue in cui ciascuno possa presentarsi con le proprie idee e capacità. In quest'ordine di idee la competizione all’interno di un gruppo viene soppiantata da una gestione più gentile dove la collaborazione tra individui è la chiave del successo.Questa a mio parere è un’evoluzione necessaria. Mai come ora la comunicazione ha reso rapida la divulgazione di idee, scoperte e invenzioni, talmente veloce che le capacità del singolo individuo raramente sono sufficienti ad assimilarle o utilizzarle e, a maggior ragione, a superarle. Nel nostro tempo il gruppo raggiunge più rapidamente e in modo più completo e approfondito gli obiettivi prefissati.La ricerca della coralità nelle azioni deve vedere il coinvolgimento degli individui e mirare più in alto non soltanto nelle aziende. Deve essere perseguita anche dagli Stati.Ed è ciò che sta accadendo con Agenda 2030, diciassette punti che vedono l’impegno di tutti i paesi dell’ONU a fornire il proprio contributo per ridisegnare il progresso con una connotazione più gentile, facendo leva su tre aspetti fondamentali, quello economico, quello sociale e quello ecologico.Dei diciassette punti, il quarto, un'istruzione di qualità per tutti, è quello che ha attirato maggiormente la mia attenzione, probabilmente a causa del lavoro che svolgo (tutor dell’apprendimento).Ogni stato interpreta a modo proprio come ricevere questo spunto e come agire di  conseguenza.Nei luoghi in cui siamo nati e in cui viviamo questa indicazione potrebbe  sembrare superflua visto il bassissimo numero di analfabeti e la possibilità per tutti di accedere ad un'istruzione di base. Da noi esiste la scuola dell’obbligo che garantisce un livello alto di preparazione, visto il programma, la trattazione e l'approfondimento delle varie materie.E allora cosa significa per noi istruzione di "qualità"?In un mondo sempre più competitivo la necessità di ampliare il numero degli argomenti trattati per ogni singola materia,  approfondendo al contempo il loro studio, ha  spinto negli anni passati ad aumentare il monte ore trascorse a scuola da studenti e docenti. Far fronte alla crescente pressione dei programmi, voler essere (ciecamente) concorrenziali e pretendere sempre di più ha penalizzato una parte degli studenti,  quelli più fragili o con tempi di apprendimento più lenti.Per loro non si può parlare di istruzione di qualità se non si introduce la "gentilezza" tra le parole chiave, che in ambito scolastico si traduce con "inclusione”. Questo non deve significare un abbassamento degli obiettivi di formazione  bensì un loro perseguimento dando pari opportunità a tutti. Si richiede alla scuola uno sforzo notevole in termini economici per la formazione dei docenti e del personale di sostegno. Sicuramente dovranno essere introdotte figure di supporto alla didattica e strumenti atti alla creazione di piani individuali di apprendimento. L’inclusione non si può attuare in modo impeccabile dall’oggi al domani schiacciando un bottone. Noi viviamo  in un periodo di transizione: stiamo prendendo coscienza delle nuove esigenze e siamo alla ricerca delle strategie più adatte. In questa fase è normale incontrare ostacoli e purtroppo anche fare errori.Ma deve essere chiaro che una società ha un futuro prospero  se l'istruzione è di qualità per tutti  e quindi se ogni persona al suo interno è spinta a migliorarsi e ad accrescere le proprie conoscenze. Si deve poter assaporare la gentilezza al di là di parole come "per favore" o "grazie"; l'inclusione deve diventare un’attitudine nella vita che prevede l'uso di quelle parole apprezzandone fino in fondo il significato, perchè conosciute e vissute durante il percorso formativo,  anche quello scolastico. Arriveremo a scoprire ogni volta che la gentilezza è un catalizzatore efficace non solo in ambito emotivo tra singoli individui ma anche in quello scolastico e lavorativo.Giungeremo a veder aumentare la nostra produttività investendo energie nella gentilezza come avviene chimicamente innescando una reazione a catena. Ne sono certa.

Il mio supereroe

La sua manina stava tutta nella mia e la pelle morbida come quella del viso aveva un profumo dolce di bimbo, il mio.Controvoglia ogni tanto gli accorciavo i capelli rinunciando ai suoi boccoli dorati e sottili che sapevo bene non sarebbero durati ancora per molti anni, la crescita li avrebbe cambiati.Aveva avuto sin dal primo giorno di vita una ciocca nerissima, proprio al centro della testa,  che con il passare del tempo è precocemente imbiancata, come se un pezzetto minuscolo della sua mente fosse maturato con largo anticipo rispetto ai suoi coetanei.Ho sempre immaginato di potermi rivolgere a lui per ottenere un punto di vista non banale, critico, in qualche occasione profondo. Molto spesso le mie aspettative non sono state deluse.Forse l’ho caricato di una responsabilità per cui è stato costretto ad adeguarsi al ruolo di adulto precoce, o magari il fatto di appoggiarmi a lui era una semplice conseguenza della sua affidabilità che come mamma ho sempre percepito.Comunque, alla fin fine io e il mio bimbo abbiamo sempre parlato e comunicato molto liberamente senza mai trascurare il mio ruolo di madre e la sua posizione di figlio.Mi sono riscoperta pittrice quando imbrattavamo le pareti foderate di carta lungo tutto il salone con i colori a dito e ho imparato a cucinare e impiattare al meglio per contrastare la sua ostilità alle verdure.Non ho mai amato giocare con i giocattoli perché non ne sono capace, mi stufo in fretta ma so volare con la fantasia, questo sì, e magari dopo aver guardato un film o un cartone animato insieme recitavamo la parte degli eroi per tutto un pomeriggio, anche mentre svolgevo le faccende di casa.Quanti abbracci morbidi e quanti combattimenti contro nemici immaginari!Il più delle volte lui era Spiderman, la tutina rossa e le braccia sottili che roteavano accompagnate da strani rumori di sottofondo che giungevano dalla testolina incappucciata.E io gli ripetevo la frase più famosa: “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”Sono sicura che se ci fosse stato un mostro in quel momento, nella nostra cucina o nella cameretta, lui l’avrebbe affrontato con coraggio, convinto di esserne in grado per via dei superpoteri ma soprattutto per la responsabilità che derivava dal fatto di essere Spiderman, un supereroe.Qualche volta sono stata io il supereroe, quando al pronto soccorso aveva paura dell’ago e del dolore dei punti io gli ho offerto il mio braccio incoraggiandolo a passarmi tutto il suo dolore stringendomi forte, più forte che poteva, fino a farmi male, perché io ero una mamma dotata dei superpoteri che hanno tutte le mamme, quello di essere immune alla sofferenza fisica quando c’è un figlio che ha bisogno di aiuto e dicendogli ancora che da questo grande potere derivava la mia responsabilità di proteggerlo. Era così che doveva essere e così è stato.Il tempo è passato, un paio di decenni, e ora mi ritrovo un ragazzo giovane, un mondo difficile intorno a lui, a tutti noi.Mi ha raccontato, come se stesse parlando di un altro bambino e non di se stesso, che quel giorno al pronto soccorso non aveva avuto poi tanto male. Io ho risposto che il mio superpotere di mamma aveva funzionato a dovere, non lasciando spazio a nessuna conclusione razionale che potesse in qualche modo sminuire l’efficacia del credere nella nostra consueta lettura degli eventi, anche a vent’anni di distanza.“Da grandi poteri derivano grandi responsabilità” era stato sempre il nostro motto (in tono scherzoso ma nemmeno poi tanto).L'altro giorno però mi sono arresa, ho dovuto.Ho visto la sua maturità manifestarsi con fermezza.Eravamo al telefono che riflettevamo sul senso di responsabilità e lui, con voce profonda, ormai lontana dagli striduli suoni dell’adolescenza, mi ha detto che la nostra frase di Spiderman poteva, anzi, doveva essere letta al contrario: “Soltanto prendendo atto della propria responsabilità si può esercitare il proprio potere”.Potere e quindi responsabilità assumono un nuovo significato se invertiamo l’ordine delle parole.Mille sono le difficoltà che ognuno di noi deve affrontare e lui, nella sua breve esperienza, ha già potuto toccare con mano come il farsi carico delle responsabilità porti sostanzialmente al risultato sperato.Ricordo il giorno in cui ha dovuto superare un esame di informatica, forse uno dei primi, totalmente indifeso e ancora senza una chiara visione delle proprie risorse. Per sua sfortuna ha dovuto cambiare ben due volte la postazione a causa di un cattivo funzionamento del computer senza poter sperare di recuperare il tempo perduto a scapito del buon esito della prova.Arrivato a casa ha ripetuto due volte che non era sicuro di come fosse andato l’esame per via di quel guasto. Una di troppo…Mio malgrado ho dovuto fermarlo, non gli ho permesso di andare oltre con i lamenti.Continuare a pensare alla sfortuna sicuramente gli aveva rubato energie e pensieri in sede di esame. Reputavo necessario insegnargli che la sua attenzione doveva rimanere focalizzata sulla prova e non sugli eventi avversi.Era suo obbligo prendersi la totale responsabilità del risultato e lavorare con ciò che aveva a disposizione, uno strumento inefficiente e meno tempo del previsto. Da questo sarebbe derivato il suo potere di concludere in modo efficace il lavoro.Il suo senso di responsabilità e il suo potere.Ma anche la mia responsabilità di genitore e quindi il mio potere di spronarlo in una situazione difficile anziché coccolarlo come avrei voluto fare assecondando il mio istinto.Al termine di queste righe mi soffermo su un’ultima, breve, riflessione: il senso di responsabilità è ciò che impariamo ad accogliere con la maturità, quando riusciamo a livello razionale a distaccarci dall’istinto, a ciò che il singolo momento ci spinge a fare senza un occhio alle conseguenze.Valutare razionalmente una situazione e prevederne una conclusione danno ad ognuno di noi la capacità di guidare le nostre azioni e quindi realizzare la nostra visione.Un uomo che si abbandoni all’istinto agirà trascinato dagli eventi senza alcun potere su di essi.